Dall’inizio dell’anno, nel nostro Paese, sono state uccise 109 donne su un totale di 263 omicidi volontari. Una ogni tre giorni. A ben 93 è stata tolta la vita in ambiti familiari o affettivi, 63 hanno trovato la morte per mano di partner o ex partner. 

Sono alcuni dei dati sulla violenza di genere diffusi dal Ministero dell’Interno sulla base dell’ultimo report elaborato dal Servizio analisi della Polizia criminale. Lo stesso report mostra un aumento consistente delle vittime di genere femminile (+8%) rispetto allo stesso periodo del 2020.

Sono numeri significativi e impressionanti. Un bollettino di guerra, che non spaventa meno di quello sui contagi da coronavirus. C’è il rischio di assuefarsi a questa narrazione quotidiana, di considerare la prossima vittima come una in più in una contabilità dell’orrore che storicamente e culturalmente non è mai stata né sarà mai in pareggio. E’ un rischio che non possiamo permetterci di correre. Perché dietro ogni numero c’è una storia, e nessuna è mai uguale all’altra. Sono storie di vita vera, storie di violenza, di coraggio, a volte di riscatto, che raccontano un fenomeno drammatico e sempre più attuale che riguarda tutti. Ci riguarda come comunità, riguarda i bambini, gli uomini, le famiglie, le istituzioni, perché la violenza di genere è una pandemia, cronica e strutturale, che ha a che fare con la cultura del non rispetto e che chiama in causa tutta la rete che dovrebbe accogliere, sostenere e proteggere le donne. Perché malgrado la responsabilità penale sia tutta personale, quella morale è anche collettiva: ogni aggressione o ingiuria è figlia di una società malata, di uno stereotipo che associa la donna a un ruolo sociale più debole o ancillare, per definizione.

Intorno al 25 novembre i media si riempiono di notizie, servizi e interventi che denunciano lo scandalo della violenza agita contro le donne. Rimbalzano i numeri sui femminicidi, le persecuzioni, le botte, gli orrori perpetrati per lo più da mariti, compagni, padri, amici di famiglia, qualche sconosciuto per strada. Si parla di buoni propositi, finanziamenti, nuove norme per la tutela delle vittime. Ma il punto è un altro. La violenza sulle donne si potrà vincere, o quantomeno ridurre, solo quando cambieranno la mentalità e la cultura maschile che la producono. Al di là dello sdegno per dati e fatti di cronaca che fanno rabbrividire, è doveroso contrastare il fenomeno con tutti i mezzi possibili, sì, ma è altrettanto necessario estirpare con pervicacia la radice di questo male che avvelena le nostre comunità a tutti i livelli. A casa, in ufficio, a scuola, nei luoghi di aggregazione, ovunque vi siano dinamiche di relazioni sbilanciate.

Quando siamo in una classe di studenti, quando insegniamo una regola di comportamento ai nostri figli, quando fissiamo lo stipendio per una lavoratrice o ci rivolgiamo a una collega, quando ci relazioniamo in pubblico, quando chiediamo un caffè alla barista o salutiamo l’addetta alle pulizie; quando amministriamo, legiferiamo, pronunciamo sentenze, dovremmo ricordarci che con il nostro comportamento costruiamo e veicoliamo un sentire collettivo e quanto più questo sentire sarà distorto su un’immagine della donna stereotipata, discriminante, insensibile al genere tanto più certi uomini continueranno a picchiare, stuprare, ammazzare.

Nel pomeriggio, alle 16, ci incontreremo in piazza del Popolo per una semplice manifestazione a cui invito tutti a partecipare. Lunedì, in aula alla Camera per l’esame della mozione contro la violenza sulle donne, si contavano otto deputati. Otto su 630. Distinguiamoci. Nel silenzio e nel vuoto quei numeri agghiaccianti di violenze rimbombano più forte ancora. Il cambiamento cui ambiamo parte da piccoli gesti concreti e, soprattutto, da noi stessi. Vi aspetto.  


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